lunedì 9 maggio 2016

Nella sorgente dell'Arno

Capo d'Arno
Cosa fa di una sorgente un fiume?
Certamente la morfologia del terreno. La pendenza determina la velocità dell’acqua, la capacità di intercettare e accogliere da subito altri rii da altre sorgenti e poi la forza di disegnare l’incavo del letto fino a farne torrente che a sua volta si alimenta di affluenti fino a che l’incontro con la pianura ne allarga il letto, ne stabilizza la portata e ne acquieta la corrente.
Capita così almeno a Capo d’Arno, a quota 1372 sulle pendici meridionali della Falterona. Un impluvio tra grandi massi di arenaria, dove le acque della sorgente trovano uno spazio angusto tra lo strato roccioso sotterraneo e la coltre di detriti in superficie per essere restituite a giorno. Fino a Molin di Bucchio l’acqua corre veloce e non conosce che il bosco, il salto, la forra, il sasso dilavato, il tronco abbattuto e non ancora le briglie, la chiusa, l’argine, il canale e con essi l’uomo e il corso delle sue storie.

giovedì 11 febbraio 2016

La croce di Cima delle Dodici


Cima delle Dodici - Croce
Le croci sono simboli che fanno paesaggio. Segnano un confine tra cielo e terra, per alcuni tra umano e divino. Segna e ha segnato un confine tra gli uomini, tra chi sta da una parte e chi da un'altra, tra chi sta dentro e chi sta fuori, tra puri e impuri, tra giusto e ingiusto. In suo nome in tanti hanno perso la vita. Per questo è un segno che ha attraversato la vita degli uomini, lasciando tracce spesso incancellabili. Ma ci sono uomini per i quali i confini non esistono perché sono posti da altri uomini, come loro.

“Forse su quella vetta la croce rimase in parte tricolore in parte nera; ma pastori e cacciatori non se ne curavano, e nemmeno i contrabbandieri; continuavano le loro attività come avevano sempre fatto. Quella montagna restava Freyjoch o Cima delle Dodici e l’antico e il nuovo esistevano insieme: Freya e il Cristo, Francesco Giuseppe e Vittorio Emanuele restavano lontani; l’uno a Vienna e l’altro a Roma. Poi venne la Grande Guerra e da ogni parte dell’Italia sabauda e  dell’Impero asburgico vennero qui gli uomini a morire a decine di migliaia. Ancora oggi ogni tanto affiorano le ossa spezzate.”

Mario Rigoni SternSfida a Cima XII

mercoledì 7 ottobre 2015

Storie di Calanchi e Crinali

Al termine di ogni escursione ti restano attaccate delle storie, frammenti di narrazioni, croste di fango sotto le suole degli scarponi o schizzi sullo zaino. E si indugia un momento prima di spazzolarle via. Sarà perché i luoghi sono fatti anche di storie e perché le storie lasciano impronte nei luoghi e anche in noi che li attraversiamo a piedi.
Capita così tra Calanchi e Crinali, di riscoprire alla Pieve le lontane tracce di un castello in una lapide del 1115 sul muro della Chiesa di S. Giorgio. Una chiesa dalle placide forme settecentesche  ci segna il passo  in questa borgata ormai semi abbandonata di Savigno. Resta difficile pensare oggi che le sommità arrotondate di queste colline, solcate dalla vite e dal calanco, furono segnate per secoli da un sistema fortificato di castelli e case torri lungo i tracciati medievali della Piccola Cassia. In queste terre ancora di confine tra Bologna e Modena, nel più ampio campo di battaglia tra Impero e Papato, si combattevano cruente guerre di famiglia per il mantenimento o la conquista di possedimenti, anime  e potere: storia particulare nella storia globale. Nelle vite dei “lupi rapaci” dei Cuzzano, nell’arco di tre generazioni, si trovano avventure, battaglie, ambizione, intrigo, tradimento, ferocia e per Guido da Cuzzano addirittura la decapitazione in piazza a Bologna, nel 1291, dopo essere stato catturato proprio alla Pieve. E’ forse questa la storia che ci vuole suggerire il vecchio cipresso secco, bruciato e scapezzato davanti alla Chiesa?

sabato 27 giugno 2015

Setteponti per Orsigna

I ponti esprimono il meglio dell'uomo, sostiene Ivo Andric. Uniscono ciò che è diviso e attraversano frontiere. Consentono di andare oltre, di dare un passo alla meta.
"Di tutto ciò che l’uomo, spinto dal suo istinto vitale, costruisce ed erige, nulla è più bello e più prezioso per me dei ponti. I ponti sono più importanti delle case, più sacri perché più utili dei templi. Appartengono a tutti e sono uguali per tutti, sempre costruiti sensatamente nel punto in cui si incrocia la maggior parte delle necessità umane, più duraturi di tutte le altre costruzioni, mai asserviti al segreto o al malvagio.[…]. Così, ovunque nel mondo, in qualsiasi posto il mio pensiero vada e si arresti, trova fedeli e operosi ponti, come eterno e mai soddisfatto desiderio dell’uomo di collegare, pacificare e unire insieme tutto ciò che appare davanti al nostro spirito, ai nostri occhi, ai nostri piedi, perché non ci siano divisioni, contrasti, distacchi."
Per salire in Orsigna non si parte da uno, ma da Setteponti. Vorrà dire qualcosa per il significato del paesaggio di questa valle?

Setteponti all'imbocco della Valle d'Orsigna


venerdì 26 giugno 2015

Il ponte salvatico di Orsigna


Il ponte salvatico nel Codice Atlantico
A Orsigna i ponti raccontano storie. Tra il Molino di Berto e il Molino di Giamba si può attraversare un “ponte salvatico”.  Salvatico  e selvatico. Salvatico perché salva la vita. Selvatico perché costruito senza chiodi e corde,  col sapiente  incastro di tronchi di castagno di due sole misure. Leonardo da Vinci nel 1502 lo disegnò e ne spiegò il montaggio nel Codice Atlantico. Prima di lui i cinesi l’avevano già utilizzato per usi agricoli, mentre Leonardo lo progettò tra i manufatti al servizio degli eserciti, per attraversare corsi d’acqua, quando ancora non esisteva il Genio Pontieri. Nelle guerre i ponti sono luoghi importanti, strategici e simbolici, tra gli ultimi ad essere distrutti e tra i primi ad essere ricostruiti. Segnano i momenti più drammatici di un conflitto,  come la speranza di una rinascita. «Questo è un ponte salvatico, fatto per neciessità d’uno esercito, dalle propie piante che ssi trovano alle riviere / de’ fiumi. E questa è l’armadura d’esso ponte, cioè l’ossa, che si copre poi di legniame più spesso e poi rami d’alberi / e sscope e piote di terra. E quanto più si carica più si serra e non ha neciessità di forte spalli come li altri».
Il ponte salvatico, se ben costruito, ha bisogno del passo e del passaggio dell’uomo per essere saldo e sicuro, per restituire salvezza a quell’uomo. I ponti di Orsigna sono salvatici perchè sono sostenibili, perchè raccontano una storia di pace, di rispetto per la natura, di tutela della memoria e del lavoro dell’uomo. Aspettano solo il nostro passo per continuare a esserlo e a farlo.

domenica 24 maggio 2015

Quel silenzio del nonno

Cento anni fa mio nonno partiva per la guerra. Un fornaio di 23 anni, occhi chiari e denti guasti. Tornò come altri, come alcuni, 4 anni dopo. Non parlò mai della prima guerra e cercò con tutte le forze di schivare la seconda. Cosa c’era in quel silenzio? La burocrazia militare ha restituito questa risposta.

Bigoni Francesco
Figlio di: Gaetano  e di Poggi Cesara. Nato il: 21 luglio 1892 a  Ro - Circondario di: Ferrara.Statura:1,73½. Torace:m.0,88.Capelli:biondi. Forma: lisci. Occhi: cerulei.Colorito: roseo. Dentatura: guasta. Arte o professione: fornaio. Sa leggere: sì. Sa scrivere:

Altopiano di Asiago - Magnaboschi: zaini di soldati in azione
Chiamato alle armi per mobilitazione e giunto in territorio dichiarato in istato di guerra li 23 maggio 1915. Giunto nel 43° Reggimento Fanteria li 12 luglio 1915. Era presente al fatto d’armi di Plava Zagora (Medio Isonzo). Monte Lemerle Altipiano di Asiago Maggio 1915-1916 per i quali la fanteria del 43° Fanteria cui apparteneva ebbe la medaglia d’argento al valor militare R. D. 3.8.16. Campagna di guerra 1915. Campagna di guerra 1916. Campagna di guerra 1917-1918.

giovedì 14 maggio 2015

Il segreto dell'aquilegia


Bella si erge l’aquilegia e china il suo capo.
È emozione? O è spavalderia?
Voi non lo indovinate.
da Frühling, J.W.Goethe

L’aquilegia è fiorita in questi giorni in Appennino. La si può incontrare nell’Alta Valle del Reno, lungo il sentiero CAI 169, dalle parti di Posola e di Canal di Sasso, uscendo al sole, dalla macchia di nuovo verde, tra il giallo della ginestra del carbonaio e il fiore bianco e pendulo dell’orniello. Si fa notare per il colore blu intenso e la forma strana della sua corolla, come un cappello da giullare rovesciato.
E’ un fiore appariscente ma che sfugge e non si lascia indovinare, come dice Goethe. Il suo nome ha radice al tempo stesso nell’acqua e nell’aquila. E’ come se nascondesse un segreto ed infatti uno dei suoi nomi volgari è Amore segreto. In Francia lo chiamano Dame honteuse, oppure Ancolie, che rimanda a malinconia, sentimento ambiguo e sfuggente, spesso frutto dell’amore sventurato o non corrisposto. 
Fiore dell’amore triste, richiama la leggenda di quei longobardi che vissero anche queste contrade di confine: la nobile Teodagne che, sposa dell’infedele Rutibando, decise di trasformarlo con un incantesimo in un’aquilegia per salvarlo comunque dalla furia assassina delle altre donne, in collera con lui.  
Fiore dell’amore tradito, come quello di Ginevra d’Este, ritratta da Pisanello, tra garofani e aquilegie, per raccontare il suo triste destino di giovane moglie tradita da Sigismodo Maltesta e da lui avvelenata per sentirsi libero di amare un’altra donna. Anche il dipinto che la ritrae nasconde un segreto, nella fitta macchia punteggiata di aquilegie, alle spalle della giovane.
E’ difficile non lasciarsi catturare dal fascino ambiguo dell’aquilegia, ma è meglio non indugiare, affrettare il passo e raggiungere i compagni di strada, prima di rimanere vittima dei suoi segreti e dei nostri pensieri più inquieti e malinconici

sabato 9 maggio 2015

Parole da leggere e camminare

Ci sono parole che raccontano un luogo meglio di un'immagine. Basta avere il tempo di leggerle e di camminarle.

“Alti e discoscesi monti, spesso a perpendicolo, talvolta anche spostati in fuori, fanno trista parete a questa valle, serrata incontro agli amorosi venti. Le brune foreste, onde tratto tratto sono vestiti i meno aspri fianchi delle rupi, ora contrastano con le biancheggianti masse calcari, ora si accordano con lo schisto nericcio, ora fan più risaltare i divallamenti colorati in arancio dall’ocra di ferro. Non pertanto vi sono seni o golfi, difesi dal soffio aquilonare, guardati pietosamente dal sole. L’industria dell’alpigiano li trasforma allora in fruttuosi campi, e queste verdeggianti oasi tanto più riescono grate al riguardante quanto più tetro e sconsolato gli si mostra tutto ciò che loro sovrasta e soggiace. […] Ma per chi ama un aspro e selvaggio prospetto, un mirabile effetto della natura; chi prende diletto nell'osservare i grandi fenomeni geologici, nel seguire gli angoli delle montagne e considerare la direzione de' loro strati, nell'esaminare i burroni scavati dai torrenti, le nevi che imbiancano le cime dei monti, le pendici dai quali sono verdeggianti o nericcie, nell'osservare le ruine e i dirupamenti, nel rappresentarsi finalmente l'uomo in atto di lottare colla natura, e di superarla per isvellere di che provvedere a' suoi principali bisogni, egli può avere a grado il passaggio per quest'alpino paese, per questa solitaria ed infelice parrocchia."

Può suonare strano ma l'alpino paese è Biagioni nell’Alta Valle del Reno e la solitaria e infelice parrocchia è quella di S. Giovanni Battista come sono raccontati in Chiese parrocchiali della Diocesi di Bologna ritratte e descritte nel 1851, prima che arrivasse la ferrovia e una certa idea di modernità; prima che quella montagna, faticosamente addomesticata dall'uomo, venisse rapidamente abbandonata per essere riconquistata da un diverso ambiente selvatico, dove l'uomo si muove oggi con un nuovo senso di estraneità. 

Andremo da quelle parti il 16 maggio per una escursione del Trekking col treno lungo il Sentiero dei proverbi.

venerdì 17 aprile 2015

Il bisogno di orizzonte

“Cosa ci fai qui?” chiedo sorpreso. “Oggi ho bisogno di ampi orizzonti” risponde la collega.
Ci incontriamo a Medelana, dove il sentiero CAI 140 incontra l’asfalto. Io sono a metà del percorso, lei, con un’amica, sta per cominciare il suo cammino. Ci scambiamo alcune informazioni sui sentieri e ci promettiamo di rivederci nei giorni successivi per raccontarci le impressioni sulle nostre camminate. Quel bisogno di ampi orizzonti resta però nell’aria e nella mente. Sarà che la dose quotidiana di orizzonte l’ho già respirata e l’ho ancora nei polmoni. Sono partito da Lama di Reno e il sentiero è salito ripido in un bosco di faggi e poi progressivamente si è allargato in carrareccia da Monazzo a Collina. Ha accarezzato le curve dei pendii fino ad aprirsi, tra Calvane e Monte Terranera, in ampi squarci panoramici su S. Luca e la pianura. Qui il passo si è disteso e il respiro si è liberato, di fronte a tanta ampiezza di veduta, in una sensazione di sollievo.
Da dove nasce questo bisogno di orizzonte? Questa sensazione di sollievo? La risposta è ovvia: da una mancanza di orizzonte, da un respiro ansioso, da un passo contratto che spesso descrive la nostra quotidianità.

lunedì 16 marzo 2015

Il sottile inganno di un'escursione

Il ragazzo rapito di Robert Louis Stevenson
“Incominciai il mio piccolo pellegrinaggio nel più invidiabile di tutti gli stati d’animo: quello nel quale una persona, con una quantità sufficiente di denaro e uno zaino, volta le spalle a una città e avanza all'interno di una regione che conosce solo sulla base di una vaga relazione di altri.
Un tipo del genere non ha rinunciato al suo desiderio e non ha contrattato le sue prossime cento miglia, come un uomo in ferrovia. Egli può cambiare idea a ogni palo segnavia e, dove le strade si incontrano, può seguire liberamente vaghe preferenze e percorrere la strada bassa o quella alta, scegliere l’ombra o il pieno sole, sopportare di essere tentato dal sentiero che curva repentinamente dentro i boschi o dalla strada ampia che si stende in lontananza aperta davanti a lui, e gli mostra le guglie distanti di qualche città, o una catena di cime di montagne, o una linea di mare, forse, lungo un basso orizzonte. In breve, egli può gratificare ogni sua fantasia e capriccio, senza una fitta di biasimo della coscienza, o l’ultimo colpo al suo amor proprio.

martedì 25 novembre 2014

Fare una montagna

Massimo Mila
Di che cosa si parla durante un’escursione?
Molto spesso di altre escursioni. E le conversazioni assumono la forma di monologhi paralleli che qualche volta convergono intorno a un luogo, al nome di una cima o al ricordo di un rifugio per poi tornare a distanziarsi in traiettorie distinte, lungo sentieri che portano verso mete diverse. Sono conversazioni in cui domina il fare rispetto all’essere, in cui i luoghi, le cime, i rifugi diventano spesso le istantanee di un album di figurine o le immagini di un campionario di prodotti consumati o da consumare. Sono conversazioni in cui spesso predomina il che cosa e il quanto rispetto al come e al perché. E in tutto questo sono i luoghi che spariscono, che perdono sempre più di significato per divenire lo sfondo opaco di performance atletiche, di passatempi consolatori o di pratiche terapeutiche.
Viviamo una stagione di escursionismo di massa dove l’ansia per la sicurezza e il bisogno di ridurre e controllare il rischio ci tengono in gruppo, ma nell’intimo ci scopriamo spesso camminatori solitari e un po’ smarriti. E’ in questi momenti che occorre riscoprire il giusto significato dell’espressione fare una montagna, così come l’intendeva Massimo Mila nell’immediato dopoguerra, dopo avere trascorso sette anni in carcere e due in montagna, nella Resistenza, dopo avere ripreso la passione giovanile per l’alpinismo ed essere diventato uno dei più raffinati storici della musica. Basta guardarlo negli occhi, in questa foto segnaletica della polizia fascista. 
E’ in questi momenti che occorre riscoprire il senso dell’escursionismo e dell’alpinismo come esplorazione, come conoscenza e pratica della natura e di sé stessi in relazione alla natura.

mercoledì 19 novembre 2014

Boccaor e l'innocenza del paesaggio


Questo è un luogo che ha perso la sua innocenza. 
Questo pensiero ti coglie come un colpo di fucile, quando arrivi sul crinale tra le cime del Monte Boccaor e del Monte Meatte, salendo dalla Valle di San Liberale, lungo il sentiero CAI 153. Un colpo solo, che rimbomba tra le nuvole basse, nell’aria umida densa di pioggia  e ti tasti per sentire se ha colpito nel segno. 
Ti  guardi intorno smarrito perché non c’è orizzonte o giro di monti con cui orientarti. Sul crinale, tra la nebbia, segui il filo dei passi e il sentiero, senza quasi che te ne accorgi, s’infila in una trincea della Grande Guerra che  ti accoglie e ti avvolge: una parete di terra e sassi che arrivano al petto. Abbassi lo sguardo e vedi il fango che imbratta gli scarponi da escursionismo  e ne immagini altri chiodati e lerci di escrementi, vomito  e sangue che ristagnano nauseati piuttosto che uscire allo scoperto. Alzi lo sguardo e segui la lunga ferita scura che corre sul cotico erboso, scavata seguendo il profilo del crinale, ad un passo dal dirupo, come la ruga profonda su un volto smagrito.

mercoledì 29 ottobre 2014

Il passo del Cinno

Bruno Monti: il Cinno
Bruno Monti ha fatto il suo ultimo passo in questo mondo ed erano in tanti a salutarlo presso il Municipio di Casalecchiodi Reno. Per alcuni è già oltre, per molti rimarrà sempre, per altri è cenere in un’urna. Molti hanno un ricordo intenso di lui e pensieri e parole più adatte di queste, perché hanno goduto della vicinanza, dell’affetto, dell’amicizia e della solidarietà della sua persona.
Ora Bruno ha varcato la soglia del ricordo e l’ha fatto con il suo passo da partigiano e proprio questo passo vorrei tenermi caro. Il movimento deciso e ampio delle sue gambe corte e quella spinta in avanti del suo piccolo corpo, che trasmetteva certezza e determinazione nella direzione, insieme a slancio ed entusiasmo. Sono convinto che era lo stesso passo che fece quando nell’aprile del ’44 entrò nella 63°Brigata Bolero, a sedici anni, per fare da raccordo tra i GAP cittadini e i gruppi della montagna, con il nome di battaglia "il Cinno", il ragazzino. Era lo stesso passo che fece quando varcò la soglia del carcere tra il marzo e l’aprile del ’45, prima di vedere la liberazione di Bologna. Lo stesso che lo portò a seguire un’ideale in Unione Sovietica, da cui tornò senza mai raccontare tutto fino in fondo. Era il passo con cui apriva la porta di centinaia di aule scolastiche per raccontare ai bambini e ai ragazzi che cos’è stata la lotta di Liberazione e le ragioni della Resistenza, senza mai pensare che fossero del tutto al sicuro nelle istituzioni repubblicane. Era quel passo che lo portava spesso a Monte Sole a raccontare da testimone la storia di una strage che ancora lascia increduli e che lo ha portato, pochi giorni prima della fine, ancora una volta sul luogo dell'Eccidio del cavalcavia del 10 ottobre del '44. 

martedì 21 ottobre 2014

Camminando intorno al Monte Pisanino

Monte Pisanino
Ci sono storie che fanno un paesaggio. Così almeno capita camminando sulle Apuane. Appena usciti dall’abitato di Vagli di Sopra, il sentiero 177 sale ripido al cospetto della Roccandagia, fino al verde prativo di Campocatino, seminato dalle vecchie e stentate casupole dei pastori, oggi ristrutturate per sobri soggiorni estivi, per poi tuffarsi in un bosco di faggi inquieti, tra rocce aspre. Rimanendo in costa e curvando verso SO, si esce al sole di questo ottobre estivo e gli occhi vengono colpiti da un’abbagliante luce bianca, tra il folto degli alberi, tanto che le mani cercano appoggio al ripido pendio del monte per tenere l’equilibrio. Sotto di noi si aprono le voragini squadrate delle Cave Campaccio e Scagli, Freddia e Bacalario percorse dalle nervose strade bianche del marmo. Si cerca ristoro da tanto chiarore volgendosi al cielo sereno dove in alto spicca la perfetta forma piramidale del Monte Pisanino. Una montagna come quelle che si disegnavano da bambini sui quaderni a quadretti, con due tratti netti che si congiungono in un punto a formare un angolo acuto, come la punta di quegli aeroplani di carta che solcavano, per un breve tratto, l’aria sospesa dei pomeriggi di gioco. Sembra di poterla toccare con la mano questa montagna tanto la sua imponenza la rende prossima. Lo sguardo sembra poter colmare in un balzo la distanza, mentre sono almeno due i chilometri che ci separano, e non solo quelli.

mercoledì 15 ottobre 2014

Perdere spazio


«Una volta un indirizzo stradale era un codice che si riferiva a un’area della mappa di una città disegnata secondo la geometria metrica, in cui sono definite le distanze. Con la nuova tecnologia la distanza scompare. Non si riduce solamente, come avveniva prima, quando le distanze si accorciavano grazie a un cavallo o a un aereo. Oggi vengono annullate, e quindi il nostro nuovo indirizzo è l’indirizzo del telefono cellulare o del computer, che funziona ovunque ci si trovi e permette di inviare messaggi ovunque sia il destinatario. In un certo senso non abitiamo più lo stesso spazio dei nostri genitori. Abbiamo cambiato spazio, e questo cambiamento è fondamentale sotto molti aspetti».

Con la rivoluzione digitale, quale spazio abitiamo? Bambini e giovani sono già nativi digitali e il loro luogo di nascita e di vita, la dimensione preferenziale del loro abitare è sempre più quella digitale, con una percezione dello spazio che è già altro rispetto alla distrazione e alla dispersione che caratterizzano le generazioni che stanno affrontando il digital divide. Siamo oltre la dimensione dell’essere fuori luogo che determina l’esperienza dello spaesamento, della dislocazione, dell’a-topia. Siamo nell’e-topia: siamo in un altro spazio che può prescindere dal corpo, semmai lo re-inventa, reinventando sé stesso.
Anche per quanto riguarda l’esperienza del paesaggio, la dialettica indigeno/straniero, insider/outsider è da riconsiderare e da ricollocare in relazione ad uno spazio che viene sempre meno percepito dai sensi e sempre più frammentato e reinterpretato dal bit e ricomposto e rappresentato in pixel come una realtà parallela e a volte più significativa di quella fisica.

lunedì 13 ottobre 2014

Camminare fuori e leggere dentro


Luigi Ghirri - Alpe di Siusi
"L’attività escursionistica sta riscuotendo, in questi anni di spaesamento, un grande interesse sotto il profilo della domanda di turismo alternativo. Il bisogno di conoscenza del territorio sembra interessare fasce sempre più larghe di utenza, soprattutto laddove cresce l’esigenza di ritrovare dimensioni nascoste in aree che, fino ad un recente passato, venivano rubricate come ovvie e scontate o ridotte alla stregua di declinazioni banali del deja vu. La ricerca dell’altrove ha rappresentato, da sempre, una delle ragioni più forti di spostamento per i gruppi umani alla scoperta dell’esotico. Non deve trarre in inganno il fatto che, nella nostra società tecnologica, si viaggi molto, nonostante che la cultura del viaggio attraversi un forte declino. Paradossalmente, proprio nel momento storico in cui tutti viaggiano, in realtà pochi realmente viaggiano. La ricerca dell’esotico, anche per la facilità dei mezzi di comunicazione e di trasporto, è diventata un falso esotico di lontananza in cui la distanza geografica sembra annullata dall’omologazione culturale e di costume. La successione seriale di non-luoghi offre scenari sempre più spersonalizzati e mortifica quella libidine della scoperta e della conoscenza che la narrazione omerica ci ha consegnato. Per queste ragioni, legate alla crescita esponenziale dell’inautenticità del viaggio turistico, sta emergendo la voglia di conoscere ciò che ci sta vicino e che rappresenta ormai una dimensione esotica di prossimità. L’escursionismo montano può diventare, allora, una risposta intelligente di fronte ad un preoccupante ed inarrestabile processo di de-territorializzazione. La stessa parola escursionismo denuncia una volontà di uscire fuori dai confini materiali e simbolici, di aprirsi all’alterità delle relazioni umane e, soprattutto, all’altrove di luoghi ritrovati nella loro specifica identità e storia.

giovedì 26 giugno 2014

Le cose del villaggio


La casa sul lago di Walden di H.D. Thoreau
"Mi allarmo quando, addentrandomi per un miglio in un bosco, mi accorgo di camminare con il corpo senza essere presente con lo spirito. Vorrei, nei miei vagabondaggi quotidiani, dimenticare le occupazioni del mattino e gli obblighi sociali. Ma talvolta non è facile liberarsi delle cose del villaggio. Il pensiero di qualche lavoro si insinua nella mente, e io non so più dove si trova il mio corpo, sono fuori di me. Vorrei, nei miei vagabondaggi, far ritorno a me stesso. Perché rimanere nei boschi se continuo a pensare a qualcosa di estraneo a quel che mi circonda?” 

Henry David Thoreau, autore di Walden, camminatore nei boschi, ricercatore dello spirito, esploratore del selvatico, uomo libero.